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Gioie (poche) e (soprattutto) dolori della gig economy
Nevica a Roma e il Comune, dopo aver chiuso le scuole, nel primo pomeriggio manda a casa gli impiegati comunali. A sera tardi, uscendo dalla redazione, vado a casa a piedi, visto che anche gli autobus non circolano. Incrocio tre addetti di Foodora e Deliveroo che in bicicletta vanno a consegnare pizze e altre pietanze per 3-4 euro a corsa nelle case di chi le ha ordinate: è la gig economy.
Sembra che questo neologismo derivi dal mondo del jazz dove si usa l’engagement, l’ingaggio a chiamata. Ora se questa formula può andare bene per un concerto, lascia quantomeno perplessi se la si applica a un lavoro. Inoltre, a differenza del jazzista che può decidere anche di saltare un concerto, il nostro ciclista non lo può fare, o meglio lo può fare ma con conseguenze pesanti; il
programma automaticamente penalizza chi risponde negativamente alla chiamata, con il risultato che il suo range precipita e avrà meno corse e/o più difficoltose. Camminando verso casa, rifletto che anche i nostri collaboratori qualche volta a pranzo, per interrompere la monotonia di panini e sandwich, si servono di Foodora e consimili. Il fatto è che quello che ci piace come consumatori ci indigna come cittadini. Ma il problema non è solo legato all’indignazione per le condizioni di lavoro (anzi di non lavoro) dei ragazzi, alcuni peraltro già attempati, della gig economy. Il lavoro a chiamata, che in Italia si sta ora diffondendo, negli Usa e nel Regno Unito con insegne come Deliveroo (cibo pronto a domicilio), CitySprint (consegne a domicilio con fattorini in bicicletta), UpWork (scambio di servizi), Mechanical Turk (piccoli lavori online) coinvolge milioni di addetti e apre altri problemi. In primo luogo quello della concorrenza asimmetrica con le imprese dell’economia reale. Pensiamo ad Airbnb: da una parte ci sono gli alberghi con obblighi di registrazione degli ospiti, norme di sicurezza, (estintori, ecc.), personale contrattualizzato, tasse;
dall’altro un mondo opaco, in cui non c’è nessun obbligo e anche le tasse per chi offre ospitalità sono un optional. Anche Uber, odiata dai tassisti, presenta analoghi problemi: mentre questi sono regolamentati dalla concessione che prevede precisi obblighi di carattere normativo e fiscale, gli autisti di Uber si regolano come meglio credono, anche se sono sottoposti al giudizio (e spesso
anche ai capricci) dei clienti. Ma non solo, Riccardo Staglianò rivela nel libro Lavoretti, così la sharing economy ci rende tutti più poveri (Einaudi) che Uber su 100 euro del servizio pagato dal cliente, trattiene 25 euro (75 euro vanno all’autista) ma di questi solo 25 centesimi sono tassabili (al 12,5%) in Olanda dove ha sede Uber B.V. In quanto ad allergia per le tasse, le imprese della gig economy sono in buona compagnia con i giganti della new economy. Questa situazione non solo provoca distorsioni e concorrenza sleale con le attività tradizionali e mancato gettito contributivo per i Paesi dove svolgono il loro business, ma soprattutto porta ad accollare agli Stati i costi sociali, sanitari e previdenziali dei milioni di occupati (si fa per dire) della gig economy.
Peccato che di tutto questo nella campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo non ci sia traccia!
Sergio Auricchio