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Cibi “senza”, una moda insensata
Secondo un’indagine Nielsen per Gs1 Italy (luglio 2017) il 18,7% dei prodotti alimentari presenti sugli scaffali dei supermercati presenta un’etichetta “senza”. Le vendite di questi prodotti hanno totalizzato nel corso di un anno un giro di affari di 6 miliardi di euro. In questo momento vanno forte i “senza conservanti”, ma i prodotti che crescono di più sono quelli “senza sale” e “senza olio di palma”; seguono i “senza glutine”, “senza lattosio” e “senza zuccheri aggiunti”. Perdono appeal i “senza coloranti” e i “senza Ogm”. A prima vista queste sembrano indicazioni utili al consumatore, ma il fiorire di prodotti “senza” appare più dettato da esigenze di marketing con il risultato, invece di informare (sono sicuramente utili diete che riducano il consumo di sale o di zucchero), di confondere e nello stesso tempo “imbrogliare” in qualche caso il consumatore. Così, ad esempio (lo avevamo evidenziato in un precedente editoriale), in molti prodotti che riportano “strilli” sulle confezioni tipo “senza olio di palma” si trovavano in etichetta grassi dannosi per la salute. Inoltre è ancora più ingannevole enfatizzare a caratteri cubitali sulla confezione l’assenza di componenti che è ovvio che non ci siano, come ad esempio il glutine nella carne. A proposito di glutine, se è vero che l’indicazione senza glutine è fondamentale per i celiaci, che però sono solo l’1% della popolazione, oggi si sta verificando un vero boom di questi prodotti per il fatto che molti consumatori che pensano, senza neanche sottoporsi ad analisi, di essere celiaci decidono di eliminare dalla loro dieta i prodotti con glutine, in questo caso “senza” alcun motivo ma “con” maggiori profitti per i distributori e i produttori. Tra l’altro, una ricerca del British Medical Journal ha evidenziato che una dieta gluten free da parte di non celiaci potrebbe far aumentare il rischio cardiovascolare. Che dire poi della diffusione di prodotti vegani (“senza” materie prime e ingredienti di origine animale)? La rivista francese 60 Millions de Consommateurs ha mostrato, analizzando le etichette di prodotti confezionati, che la reputazione di “prodotti sani e naturali” non regge. Così, ad esempio, per realizzare un “hamburger vegano” si usano numerosi additivi e aromi, necessari per riprodurre le caratteristiche sensoriali delle componenti di origine animale, e il formaggio viene spesso sostituito da una miscela di amidi e oli vegetali, con stabilizzanti e aromi, per dare un sapore accettabile. Altro aspetto non trascurabile è che i prodotti vegani costano spesso oltre il doppio dei loro omologhi convenzionali. Da qui il sospetto che anche in questo caso sia il business a guidare le scelte dei produttori, soprattutto in considerazione del fatto che a consumare prodotti vegani spesso siano non vegani influenzati dalla moda e dalla pubblicità. Infine, che senso ha spendere somme consistenti per acquistare prodotti confezionati vegani per recuperare nella dieta le proteine necessarie quando le stesse proteine possono essere assunte con una buona zuppa di fagioli o di ceci a un prezzo decisamente minore?
Sergio Auricchio